A parlare non si impara da soli

Non ci sono medicine in grado di allenare il linguaggio dei propri figli; si tratta piuttosto di favorire l’interazione che, già a partire dagli ultimi mesi di gravidanza, i bambini sono in grado di stabilire col mondo esterno

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Costantino Panza , pediatra neonatologo
Mamma con bambino che legge un libro per imparare a parlare

«Ma quante lettere ci sono dentro le tue orecchie! Tu riesci ad ascoltare tutto quello che ti dicono?». Il pediatra inizia così la sua visita, poi passa alla gola: «Be’, apri bene la bocca… quante parole ci sono sulla tua lingua! Però mancano tutte le S, e le R si confondono con le L… ma guarda che roba!». «Adesso fai dei bei respiri che sentiamo i polmoni», e appoggiando la membrana dello stetoscopio sul torace aggiunge: «Ma Gigi, complimenti, qui dentro ci sono tante canzoni con la rima!».

«Allora, signora…». Il pediatra, tutto serio, si mette seduto e inizia a scrivere una ricetta: «Per aiutare Gigi a parlare deve dargli questo sciroppo tre volte al giorno prima dei pasti, così aumenteranno le R, le S e le T. Poi facciamo anche una bella puntura, così il ragazzo farà tre domande con il “perché?” ogni due minuti. Con queste medicine, tra due mesi suo figlio parlerà a meraviglia». A qualcuno forse questo dottore potrà piacere, però le cose non funzionano così; le medicine per allenare il linguaggio sono ben altre.

Prima della nascita

Prima ancora di nascere il nostro bambino è già un raffinato ascoltatore di parole. Nell’ultimo trimestre di gravidanza ascolta le parole della mamma, impara a riconoscere i suoni contenuti in ognuna di esse e lo fa attraverso la musicalità delle vocali. Il suo cervello, anche se ancora molto immaturo, lavora tantissimo per memorizzare i suoni che costituiscono ogni parola. E non si limita soltanto a questo: ascolta la ritmicità della lingua e impara a distinguerne caratteristiche e accenti. Alla nascita, questo apprendimento lo aiuterà a rivolgersi con più interesse verso la mamma, perché la riconoscerà dal timbro della voce e dalla melodia che fuoriesce dalla sua bocca. Parlare al feto, quindi, fa bene, senza considerare il fatto che cantare è anche un passatempo rilassante per la donna in gravidanza.

Uno studio ha “misurato” la quantità di parole rivolte a un campione di neonati ricoverati in ospedale perché nati pretermine con un peso scarso, rivelando delle notevoli differenze: mentre alcuni bambini ascoltavano poco più di cento parole al giorno, altri arrivavano fino a ventiseimila. È noto che mentre alcuni genitori chiacchierano poco con il loro bambino, altri si esercitano parecchio in tale pratica. Il dato interessante è che l’enorme differenza nel numero di parole ascoltate si è tradotta, alcuni anni dopo, in un linguaggio migliore per quei bambini che avevano ascoltato più parole dai loro genitori.

Ma i bambini, pur se piccolissimi, desiderano anche esprimersi: i ricercatori dello studio citato hanno osservato che quando i genitori parlavano rivolgendosi ai neonati, questi ultimi vocalizzavano come se volessero “fare conversazione”. È proprio così, i neonati desiderano ascoltare le nostre parole, ma solo quelle che rivolgiamo loro, e vogliono parlarci con un soffio di voce, un breve vocalizzo, un gemito. Per loro si tratta già di bei discorsi da fare a mamma e papà.

Il “mammese”

Ai lattanti piace moltissimo che ci si rivolga loro in “mammese”, cioè attraverso quello speciale linguaggio cantilenato, fatto di frasi brevi e ripetitive, con una tonalità alta, un tempo lento e un timbro di voce dolce. Oltre ad apprezzare questa maniera un po’ buffa di esprimersi, i bambini, attraverso il mammese, imparano meglio le parole e mantengono l’attenzione per un tempo più prolungato rispetto a quando si parla loro con voce “normale”. Nessun papà dovrebbe quindi vergognarsi di esprimersi in questa lingua speciale. È importante però rivolgersi verso il bambino, rispettando i turni di conversazione (sì, anche lui vuole rispondere ai nostri discorsi) e, soprattutto, guardandolo in viso e negli occhi. Se notiamo che il bambino distoglie lo sguardo da noi o inizia ad agitarsi, ad esempio inarcando la schiena, non insistiamo e lasciamolo riposare un po’. Per un bambino così piccolo, ascoltare e “parlare” richiede grande attenzione, un’attenzione che, a volte, può durare anche solo pochi minuti.

«Ma cosa gli racconto? Non sono un chiacchierone e non ho molto da dire» potrebbe essere la contestazione di qualche papà – o di qualche mamma – di poche parole. Tuttavia non è necessario essere dei narratori esperti per parlare al proprio bambino: sarà sufficiente raccontargli delle semplici routine casalinghe, anche solo quello che stiamo facendo. Al bambino basterà sentire il tono melodioso e dolce della voce del genitore per rimanere attento. Se gli si parla usando modi positivi, con un bel sorriso, un volto sereno e guardandolo negli occhi, l’apprendimento è assicurato.

I giochi di parole

«Leggimi subito, leggimi forte / Dimmi ogni nome che apre le porte / Chiama ogni cosa, così il mondo viene / Leggimi tutto, leggimi bene / Dimmi la rosa, dammi la rima / Leggimi in prosa, leggimi prima». L’autore di questa filastrocca in rima è Bruno Tognolini; il testo è bello, allegro, con un ritmo che fa venir voglia di danzare, e si presta a diventare un gioco da fare con il proprio bambino. «Sereno è, sereno sarà, se non sarà sereno si rasserenerà». Questo breve scioglilingua, invece – con la sua ricchezza di lettere S – ci offre un esempio di allitterazione, cioè di ripetizione di un suono o di una serie di suoni all’inizio (o all’interno) di due o più vocaboli successivi.

Nel complesso, questi giochi di parole (filastrocche, rime, allitterazioni e così via), oltre a far divertire i bambini, svolgono una funzione speciale: insegnano loro a distinguere le parole e le parti in cui possono essere scomposte (in termini tecnici, si parla di sillabe e fonemi), indipendentemente dal loro significato. I bambini piccoli, immersi in questo gioco di poesia e musica, imparano così a percepire e a riconoscere le parole in modo molto dettagliato, con minor fatica e con tanto divertimento. Insomma, si tratta di un gioco, ma è pur sempre un gioco molto serio che offre la possibilità al bambino di affrontare meglio le future prove della scuola elementare.

I libri

Un tempo, quando le scuole iniziavano il primo giorno di ottobre, i libri facevano la loro comparsa nella vita dei bambini solo all’inizio della prima elementare. Oggi, invece, alcuni reparti ospedalieri di neonatologia possiedono una biblioteca dedicata ai neonati, con papà e mamme che leggono ai loro bambini ricoverati. Moltissimi studi scientifici hanno infatti documentato che leggere a un bambino piccolo è un’attività molto utile per lo sviluppo del linguaggio.

Nel primo anno di vita, i libri con immagini di volti sono quelli che suscitano maggiore interesse da parte dei bambini, così come quelli in cui compaiono brevi poesie e filastrocche. In seguito, dal secondo anno di vita, i libri che ritraggono oggetti o piccole scene, accompagnati da semplici frasi, sono tra i più gettonati. Compiuti i 2 anni, le storie, dapprima con pochi personaggi e uno svolgimento semplice, e poi sempre più ricche di soggetti e particolari, sono le predilette dai bambini. In generale, però, la caratteristica che rende unici i libri per bambini è che bisogna essere in due per leggerli.

Nessun bambino può imparare da solo a leggere. È il genitore che sta al suo fianco, o ancor meglio che lo avvolge in un abbraccio mentre gli legge una storia, a insegnargli le parole. A seconda dell’età del bambino, sarà facile trovare un modo per coinvolgerlo: indicando l’immagine nella pagina, facendo qualche semplice domanda, chiedendo di ripetere qualche parola o un particolare della storia… finché non si giungerà a una svolta e allora sarà il bambino a leggere (a tal proposito, in questo articolo affrontiamo il tema della dislessia, disturbo neurologico della lettura) e il genitore ad ascoltare. Solo in questo modo l’apprendimento è assicurato.

Dimenticare le parole

Una grande industria dello spettacolo ha messo in commercio alcuni anni fa un DVD educativo che prometteva di aiutare i bambini piccoli ad apprendere il linguaggio. I ricercatori di un’università americana, entusiasti per questa iniziativa, misurarono scientificamente l’efficacia del gioco educativo proposto che, tuttavia, in realtà non funzionava. Il responsabile dell’industria dapprima chiese di ritirare la pubblicazione dello studio, poi, sotto la pressione di un’azione legale, ritirò il gioco dal commercio e fu costretto a pagare diversi milioni di dollari in rimborsi. La morale? Nei primi anni di vita guardare la TV o un tablet, anche se interattivo, non solo non aiuta ad arricchire il linguaggio, ma ne rallenta addirittura lo sviluppo. Mentre un genitore racconta che suo figlio, ad appena un anno, «guarda attento i cartoni animati», forse quel bambino sta dimenticando le parole.

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Costantino Panza

comasco di nascita, ha studiato a Parma, dove si laurea in Medicina e si specializza in Pediatria, e successivamente in Neonatologia e Patologia neonatale. È autore di oltre 70 pubblicazioni scientifiche italiane e internazionali peer-reviewed, e collabora con Uppa da diversi anni con articoli di divulgazione pediatrica.

Articolo pubblicato il 06/12/2019 e aggiornato il 11/09/2023
Immagine in apertura evgenyatamanenko / iStock

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