Autosvezzamento: cos’è e come funziona

Il bambino non ha bisogno di seguire un'alimentazione particolare per passare dal latte ai cibi solidi: si avvicinerà da solo e progressivamente a quello che mangiano i genitori

Immagine per l'autore: Lucio Piermarini
Lucio Piermarini , pediatra e autore
Bambino che mangia una fragola nel processo di autosvezzamento

Una massima cui i pediatri di Uppa si attengono nella loro attività professionale è “fare meglio con meno”. Siamo convinti che, allo stato attuale delle cose, in materia di salute esista una gran quantità di pratiche mediche che non solo non portano alcun vantaggio reale, ma addirittura in qualche caso potrebbero essere dannose. Questo non vuol dire porsi contro la medicina cosiddetta “ufficiale” per tornare alla semplicità e purezza della Natura, ma piuttosto verificare, per ogni raccomandazione medica, che si tratti del frutto di studi approfonditi di scienziati seri e disinteressati.

Succede spesso di accorgersi che qualcosa che noi pediatri abitualmente raccomandiamo non abbia altro fondamento se non antiche e semplici opinioni di qualche autorevole professore, alle quali se ne sono aggiunte altre, e così via fino a diventare un comportamento consolidato, che nessuno sa da dove e perché sia nato. Proprio questo è capitato quando, stupito dalle difficoltà incontrate dalle mamme nell’affrontare un evento naturale e inevitabile come lo svezzamento, mi sono messo a studiare un po’ più a fondo la materia. Nel corso degli anni sono così riuscito a raccogliere, da libri e riviste scientifiche, materiale sufficiente da indurmi a cambiare modo di affrontare questa fase di sviluppo del bambino.

Nasce lo svezzamento precoce

Questa storia è iniziata circa mezzo secolo fa con il progressivo abbandono dell’allattamento al seno, nella convinzione, senza alcuna prova, che il latte materno, a partire dai 2-3 mesi di vita, non fosse più adeguato alle esigenze di crescita del bambino, e andasse quindi integrato con altri alimenti. Così da uno svezzamento tardivo, affidato all’esperienza familiare e con alimenti domestici, si passò a svezzare i bambini piccolissimi. Trovandosi di fronte a un apparato digerente e a un sistema immunitario ancora immaturi, si dovette ricorrere ad alimenti speciali ad alta digeribilità, confezionati in maniera sterile; per la stessa ragione si raccomandava un’introduzione graduale dei vari alimenti, per poter individuare tempestivamente il responsabile di eventuali problemi.

Anche queste scelte alimentari furono fatte senza sapere se avrebbero avuto qualche conseguenza negativa, visto che non esistevano precedenti su cui basarsi. Con gli anni si prese lentamente coscienza dei danni prodotti da questa fretta immotivata di sostituire il latte con le pappe (infezioni intestinali, allergie, obesità) e, sotto la spinta di organizzazioni sanitarie nazionali e internazionali (Organizzazione Mondiale della Sanità, UNICEF), iniziò il cammino inverso, fino alle attuali raccomandazioni di proseguire l’allattamento esclusivo al seno fino a sei mesi. Ma le abitudini sono dure a morire: accade così che non solo si continui a svezzare i bambini a 4-5 mesi, ma anche a utilizzare alimenti e strategie indispensabili in passato per evitare danni a bambini ancora immaturi e in difficoltà per essere stati privati del loro alimento specifico: il latte materno. Si dimentica che un bambino di 6-7 mesi ha ormai un apparato digerente sufficientemente maturo per poter digerire i normali alimenti preparati in casa, così come si faceva una volta, ovviamente tenuto conto dell’assenza dei denti.

Ma tutto può essere semplice. Quanto abbiamo detto sarebbe già sufficiente a semplificare di molto la vita di una mamma alle prese con lo svezzamento, per non parlare del risparmio. Un bambino di sei mesi ha maturato non solo il suo intestino, ma anche il suo sistema immunitario, la sua intelligenza, le sue abilità motorie, la capacità di masticare. Scompare quindi l’angoscia di sterilizzare tutto, il bambino se ne sta seduto da solo, impara sempre più anche a mangiare da solo, accetta il cibo in bocca con il cucchiaino senza alcuna difficoltà, lo deglutisce senza rischi di soffocamento e (attenzione, attenzione!) quando è presente al pasto dei genitori, mostra un acceso interesse per il cibo che vede nei loro piatti.

Quante volte sentiamo dire che il bambino non vuole più mangiare “le sue cose” e gradisce di più quelle dei genitori? Interpretiamo di solito questo comportamento come un apprezzamento del miglior gusto dei cibi dei grandi, anche se poi si vede che anche il bambino che è stato nutrito esclusivamente al seno, e quindi non conosce gli altri alimenti, è attratto dal cibo dei genitori: proprio lui, che ha sempre calmato la sua fame al seno, e non sa neanche che si tratta di cose da mangiare. Eppure si pencola, sgrana gli occhi, tende le mani, vuole assolutamente fare la stessa cosa. Solo se i genitori lo accontentano (e chi potrà resistere?) riuscirà a scoprire che si tratta di qualcosa di gustoso e di saziante, cioè che anche quello è cibo.

Un consiglio: lasciate che il bambino si svezzi da solo

Allora noi pediatri possiamo aggiungere alle altre raccomandazioni quella, apparentemente più sconvolgente, di lasciare che il bambino si svezzi da solo durante i pasti dei genitori, chiedendo e ottenendo piccoli assaggi di tutte le portate. In questo modo, senza forzature, si adeguerà insensibilmente alla dieta e agli orari della famiglia. In realtà non facciamo altro che anticipare, senza alcun pericolo, quello che inevitabilmente avverrebbe comunque dopo; il bambino mangerà, prima o poi, nel bene e nel male, quello che si mangia in famiglia, e con quelle abitudini alimentari passerà attraverso l’adolescenza e la vita adulta (in questo articolo vi suggeriamo alcune ricette adatte allo svezzamento, sane e pronte in 15 minuti). Per questo è importante che i genitori diano, da sempre, il buon esempio con una corretta alimentazione: infatti fare “due cucine” per salvaguardare il bambino, mantenendo cattive abitudini per i grandi, non servirà a evitargli, una volta cresciuto, di fare gli errori e correre i rischi dei suoi genitori.

Chiamiamolo “autosvezzamento”

Potremmo chiamare questo nuovo, ma antico, modo di svezzare i bambini “autosvezzamento”. Dobbiamo aver fiducia in ciò che la scienza e la quotidiana osservazione dei bambini ci suggeriscono: solo quando i bambini raggiungono una maturità sufficiente è per loro possibile assumere alimenti diversi dal latte, materno o artificiale, in tutta sicurezza, gioiosamente, senza astruse combinazioni di più o meno esotici prodotti industriali, con minima spesa e grande soddisfazione dei genitori.

Le più importanti organizzazioni sanitarie ci suggeriscono i sei mesi di vita come limite minimo da superare prima di iniziare lo svezzamento. Ebbene, da quel momento in poi, al primo segnale di interesse da parte del bambino nei confronti del pasto dei grandi, gli si offrirà un piccolo assaggio di ciò che si sta mangiando, e così per tutte le portate. Si smetterà quando il bambino non farà più richieste. Lo stesso si farà ai successivi pasti, senza alcuna necessità di affidarsi a tabelle, schemi e orari preimpostati (ne parliamo in modo approfondito in questo articolo). Le poppate intanto continueranno con la cadenza abituale, ma inevitabilmente quelle vicino al pranzo e alla cena diventeranno sempre meno consistenti fino a scomparire. In questo modo, insensibilmente e ognuno con un proprio ritmo.

Immagine per l'autore: Lucio Piermarini
Lucio Piermarini

Ternano, dopo aver lavorato come pediatra ospedaliero, si occupa di formazione nell’ambito dei corsi di preparazione alla nascita presso il consultorio “Città Giardino” di Terni. È uno degli autori storici di Uppa e ha pubblicato numerosi articoli sullo svezzamento su riviste pediatriche e non solo. Nel 2019 è uscita per Uppa edizioni una nuova versione del suo libro “Io mi svezzo da solo!”

Articolo pubblicato il 24/06/2013 e aggiornato il 26/03/2024
Immagine in apertura Volodymyr Tverdokhlib / Shutterstock.com

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