La resilienza non è una dote innata né una capacità di «resistere» senza difficoltà, ma un processo dinamico che permette a bambini e adulti di adattarsi agli eventi critici grazie a relazioni sicure e a un ambiente supportivo. In questo articolo vengono chiarite le idee più diffuse ma scorrette, come l’erronea associazione tra resilienza e iper-autonomia, oppure l’idea che si sviluppi “da sola” attraverso sfide sempre più impegnative. Vengono esplorati i fattori che davvero la favoriscono – dal legame di attaccamento alle competenze emotive – e il ruolo degli adulti nel riconoscere segnali di stress tossico o sovraccarico. Si approfondisce anche il valore della regolazione emotiva e dell’autoefficacia, competenze che sostengono il percorso resiliente senza idealizzare la sofferenza né negare le fragilità.
Resilienza è una parola che ultimamente si sente e si utilizza spesso. Ma cosa si intende davvero con questo concetto? Siamo forse tutti resilienti? Un bambino può essere resiliente? Cerchiamo di fare chiarezza.
La resilienza è la capacità degli individui di far fronte allo stress e alle avversità uscendone rafforzati, di saper resistere e di riorganizzare positivamente la propria vita e le proprie abitudini a seguito di un evento critico negativo. Si tratta quindi di una reazione attiva alla frustrazione e al disagio, di una risposta tesa a trovare nuove possibilità e nuove prospettive di evoluzione e promozione del benessere.
La prima definizione psicologica di tale concetto si deve a Michael Rutter che, studiando bambini nati da madri schizofreniche, definì la resilienza come «risposta positiva di un soggetto allo stress e alle condizioni avverse». Si tratta di un «concetto interattivo che deriva dalla combinazione di esperienze di rischio gravi con una riuscita psicologica relativamente positiva», e da «un’interazione dinamica tra fattori di rischio e fattori protettivi appartenenti a diversi livelli» [1] . Successivamente Emmy E. Werner ‒ a seguito del suo studio trentennale su un gruppo di bambini a Kauai (Hawaii) che vivevano in condizioni di estrema povertà e in un ambiente familiare problematico ‒ parlò di resilienza nei termini di «consolidamento delle competenze del soggetto posto in situazioni stressanti».
Gli studi hanno dimostrato che non esiste un’unica forma di resilienza. Essa infatti è multidimensionale e determinata da numerosi elementi, quali ad esempio predisposizioni genetiche, fattori ambientali, abilità personali e sociali.
Nel loro lavoro sulla resilienza, Maria Antonella Costantino e Mauro Camuffo sottolineano come essa non possa essere considerata una condizione statica o permanente. Si può essere resilienti in alcuni momenti della vita e non in altri; di fronte a un certo evento, e non di fronte a un altro: «La resilienza si riferisce a un generale stato di adattamento nella vita quotidiana e gli stessi fattori protettivi non possono essere considerati attributi fissi» [2] .
Esistono alcuni fattori individuali (caratteristiche personali) e sociali (la famiglia di appartenenza e i sistemi di supporto comunitario) che possono rendere più probabile una risposta resiliente. Franca Cantoni individua in particolare cinque ingredienti che favoriscono la resilienza:
Cosa significa essere genitori resilienti? Di certo non vuol dire non avere debolezze o non sentirsi mai in difficoltà; non vuol dire avere sempre la risposta giusta o sapere esattamente cosa fare in ogni momento. Essere genitori è già di per sé una condizione “particolare”, colma di nuove sfide e di nuove avventure che ognuno impara a gestire e ad affrontare a modo suo, senza avere a disposizione un manuale di istruzioni valido per tutti e per ogni occasione.
Porsi in maniera resiliente, dunque, significa trovare la maniera per non focalizzarsi solamente sulle vulnerabilità, le incertezze e le situazioni di disagio dei figli, ma riuscire a coltivare e rafforzare le loro risorse e le loro abilità, affinché trovino in autonomia un modo per far fronte alle avversità che incontreranno nel corso della vita, grandi o piccole che siano.
La resilienza, dunque, non è qualcosa che si ha o non si ha, ma una predisposizione che può essere coltivata e favorita, a partire dall’infanzia. In che maniera? Ecco qualche suggerimento:
Quali segnali indicano che un bambino potrebbe avere bisogno di supporto professionale?
Alcuni segnali che meritano attenzione sono cambiamenti marcati e prolungati nel sonno, nell’alimentazione, nel rendimento scolastico o nelle relazioni; irritabilità o tristezza persistenti; evitamento delle attività quotidiane; lamentele corporee senza causa medica apparente. Non indicano necessariamente un disturbo, ma suggeriscono che il bambino sta affrontando una situazione emotiva faticosa. In questi casi è utile confrontarsi con il pediatra o con un servizio di psicologia dell’età evolutiva.
Come si può favorire la resilienza in famiglia nella vita di tutti i giorni?
Routine prevedibili, ascolto attivo, possibilità di esprimere emozioni e coinvolgimento dei bambini nella soluzione dei piccoli problemi quotidiani sono fattori che rafforzano la resilienza. Anche il modello degli adulti è fondamentale: mostrare modi sani di affrontare le difficoltà aiuta i più piccoli a sviluppare competenze simili. Ogni famiglia può adattare queste strategie al proprio contesto, chiedendo supporto ai professionisti se emergono dubbi o fatiche.
Qual è il ruolo della scuola nel sostenere la resilienza dei bambini?
La scuola può offrire un ambiente stabile, relazioni significative con adulti di riferimento e attività che potenziano autonomia, problem solving e cooperazione. Programmi di educazione socio-emotiva, oggi raccomandati da numerosi enti internazionali, aiutano i bambini a riconoscere emozioni, gestire lo stress e collaborare con i compagni. Per esigenze specifiche, è importante che famiglie e docenti mantengano un dialogo regolare e, se necessario, coinvolgano i servizi territoriali.
Gli eventi stressanti prolungati possono compromettere la resilienza?
Eventi come malattia cronica, lutto o difficoltà economiche possono aumentare la vulnerabilità, ma la presenza di fattori di protezione – relazioni affettive sicure, routine, accesso ai servizi – permette comunque di sviluppare resilienza. In periodi di stress prolungato è utile monitorare il benessere di tutta la famiglia e chiedere supporto ai professionisti quando le strategie abituali non bastano.