Il prezzo della pandemia per le madri lavoratrici

Nel corso dell’emergenza pandemica le madri lavoratrici hanno pagato un prezzo molto alto in termini di salute psicofisica. Per quale motivo? E cosa è possibile fare?

Immagine per l'autore: Anna Rita Longo
Anna Rita Longo , divulgatrice scientifica
Madre lavoratrice da cosa con la figlia sulle spalle

Il New York Times ha recentemente dedicato una serie di articoli alla difficile condizione delle madri lavoratrici nell’emergenza pandemica. Non si tratta certamente dell’unico contributo su questo tema: i media di tutto il mondo, infatti, hanno dato risalto a un problema di lunga data, ma emerso adesso con chiarezza ancora maggiore, per via delle mutate condizioni imposte dalla diffusione della COVID-19. Il peso della gestione familiare di tale emergenza si è scaricato soprattutto sulle donne, e le madri lavoratrici, in particolar modo, hanno sperimentato gravi ripercussioni sulla propria situazione lavorativa e salute psicofisica.

I numeri in Italia

I più recenti dati Istat mettono in evidenza come la situazione nel nostro Paese sia profondamente lontana dalla tanto auspicata parità di genere, ampiamente utilizzata come slogan politico, ma spesso ignorata nei provvedimenti concreti. Nel solo mese di dicembre 2020, in cui ci si sarebbe attesi un aumento dei contratti a tempo determinato in corrispondenza delle festività, si sono persi invece 101mila posti di lavoro, 99mila dei quali occupati da donne (il 98%). Da dicembre 2019 a dicembre 2020 i posti di lavoro persi sono stati 444mila, di cui 312mila erano posti a occupazione femminile (il 70%).

Già l’Istituto Superiore di Sanità dava conto, tempo fa, delle rilevazioni fatte in merito all’impatto dell’emergenza sulla salute psicofisica, sottolineando come uno studio coordinato dal Dipartimento di Salute Mentale dell’Università della Campania “Luigi Vanvitelli”, al quale l’ISS aveva partecipato, mettesse in evidenza alcune conseguenze del lockdown, durante il quale la popolazione femminile, in particolare, aveva sperimentato un aumento dei livelli di ansia, depressione e sintomi correlati allo stress.

Perché accade?

Quando si parla di lavoratrici con figli, testimonianze e studi che si stanno via via accumulando mostrano una situazione allarmante. Molte donne hanno riferito di avere o aver avuto problemi nella gestione familiare, collegati, per esempio, alle difficoltà sperimentate dai figli nella dimensione di ridotta socialità del confinamento o nella didattica a distanza, con relativo aumento, nei bambini e ragazzi, delle manifestazioni di stress e di disturbi di vario tipo. A questi problemi si sommavano le difficoltà lavorative, sia che il lavoro fosse in presenza sia che fosse a distanza

In linea puramente teorica, il carico della gestione di una situazione mondiale così difficile sarebbe dovuto ricadere in maniera equa sugli uomini e sulle donne, ma evidentemente la nostra società è ancora distante dall’obiettivo della parità, come mostrano le tantissime ricerche sul divario di genere relativamente a occupazione, stipendio, avanzamento di carriera, conciliazione del lavoro con la gestione familiare e gli impegni relativi alla cura dei figli e delle persone anziane e in difficoltà.

L’emergenza in corso ha dimostrato in maniera chiara come, nel momento in cui viene a saltare qualche elemento della rete sociale che in tempi “normali” consente un’organizzazione più o meno efficace, tutto il peso si scarichi inesorabilmente sulle spalle delle donne.

Il peso della cultura non paritaria

Alla base del fenomeno concorre un duplice meccanismo i cui due elementi si rafforzano a vicenda, creando quelle che i ricercatori, con una metafora molto efficace, chiamano “gabbie di genere[1] . La cultura, ancora intrisa di stereotipi maschilisti e patriarcali, crea innanzitutto le condizioni perché dalle donne si pretenda continuamente un impegno e, soprattutto, un carico mentale maggiore rispetto a quello degli uomini, costruendo miti scientificamente infondati, come quello della propensione delle donne a essere per natura e senza particolare sforzo multitasking. L’esaltazione della capacità delle donne – spesso delle madri – di fare tutto senza concedersi un attimo di riposo e senza sacrificare alcun aspetto si ritrova spesso anche in libri, articoli e film, che hanno contribuito a rafforzare lo stereotipo.

Il condizionamento esterno si trasforma poi facilmente in autocondizionamento, per cui sono molte, in effetti, le donne intimamente convinte che occuparsi di tutto senza riposarsi mai, e sovrintendere anche al lavoro e alle negligenze altrui, sia un loro specifico compito, che non è possibile delegare. Lo ha messo in evidenza in modo molto chiaro la blogger e fumettista francese Emma nel suo libro Bastava chiedere! 10 storie di femminismo quotidiano [2] , pubblicato in Italia da Laterza, in cui si punta il dito sull’aspetto, spesso poco considerato, dell’attività di pianificazione e controllo di tutte le dinamiche familiari, compito che è spesso esclusivo appannaggio delle donne e che rientra nel concetto di “carico mentale”.

La centralità dell’educazione

Se, da una parte, non possiamo che sperare che le rilevazioni, nazionali e internazionali, siano di spunto per una serie di provvedimenti che sostengano le donne e favoriscano la parità di genere in questo difficile momento, una svolta sostanziale è possibile solo a partire da un cambiamento sociale profondo, nel quale l’educazione familiare e l’istruzione scolastica svolgono un ruolo sostanziale. 

Non è semplice resistere alle sirene del marketing, che continuano a costringere molte bambine all’interno di steccati difficili da abbattere. Ancora oggi i reparti di abbigliamento, accessori e giocattoli sembrano mostrare un mondo in cui è estremamente evidente la separazione tra oggetti, colori, vestiti destinati a maschietti e femminucce e in cui si ignora totalmente l’esistenza delle persone che hanno un’identità di genere non binaria.

Le ricerche sui libri di testo scolastici, per esempio quelle portate avanti da Irene Biemmi [3] , mettono in rilievo la ristrettezza dei confini dell’universo proposto alle bambine, relegate a ruoli passivi e “decorativi”, che non permettono loro di esprimere la propria identità e le proprie aspirazioni in modo libero e spontaneo. 

Negli ultimi tempi, l’attenzione degli editori e degli operatori scolastici al tema della parità, così come quella delle case di produzione di cartoni e film per l’infanzia, è stata maggiore, anche se siamo ancora all’inizio di un percorso verso un obiettivo che impone un rapido ed efficace impegno di tutte le persone, in tutti i ruoli, educatori e genitori compresi.

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Anna Rita Longo

Divulgatrice scientifica, è socia effettiva e presidente della sezione pugliese del CICAP (Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze) e membro del direttivo dell’associazione professionale di comunicatori della scienza SWIM. Scrive per diverse riviste cartacee e online, tra le quali Le Scienze, Mind, Uppa, Focus Scuola, Wired.it, Wonder Why, Scientificast.

Note
[1] Irene Biemmi e Silvia Leonelli, Gabbie di genere. Retaggi sessisti e scelte formative, Rosenberg&Sellier, Torino, 2016
[2] Emma, Bastava chiedere! 10 storie di femminismo quotidiano, Laterza, Roma, 2020
[3] Irene Biemmi, Educazione sessista. Stereotipi di genere nei libri delle elementari, Rosenberg&Sellier, Torino, 2010
Bibliografia
Articolo pubblicato il 17/02/2021 e aggiornato il 22/09/2022
Immagine in apertura Phynart Studio / iStock

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