Perché il tuo pediatra non consiglia l’autosvezzamento? Intervista a Lucio Piermarini

Chiara Borgia, direttrice di Uppa magazine, ha cercato di capire come mai, nel nostro Paese, sono ancora tanto diffuse certe pratiche legate allo "svezzamento tradizionale" e per quale motivo tanti pediatri continuano a consigliare pappe pronte e baby food

Immagine per l'autore: Lucio Piermarini
Lucio Piermarini , pediatra e autore
Immagine per l'autore: Chiara Borgia
Chiara Borgia , direttrice di Uppa magazine
bambina con cibo in svezzamento

Lucio Piermarini è uno degli autori storici di Uppa e uno dei primi pediatri, in Italia, a occuparsi di “autosvezzamento” o, com’è più corretto dire, di “alimentazione complementare a richiesta”. Ha dedicato numerosi articoli e libri a questo tema, e in generale all’alimentazione infantile. Lo ha intervistato Chiara Borgia, direttrice di Uppa magazine, per cercare di capire come mai, nel nostro Paese, sono ancora molto diffuse certe pratiche legate allo svezzamento cosiddetto tradizionale e per quale motivo tanti pediatri continuano a consigliare pappe pronte e baby food per introdurre nella dieta dei bambini i primi cibi diversi dal latte materno o dalla formula.  

“Cattive pratiche” ancora diffuse

Chiara Borgia: Lucio, puoi spiegarci brevemente quali sono le principali “cattive pratiche”, ovvero quelle indicazioni che dovrebbero essere considerate del tutto superate e che invece sono ancora diffuse?

Lucio Piermarini: Le “cattive pratiche”, purtroppo, sono molte, e nascono tutte sia dal mancato riconoscimento delle competenze del bambino – come la capacità di gestire i cibi solidi, di riconoscere i sapori assaggiati mentre si trovava nell’utero e durante l’allattamento, di autoregolarsi – sia, soprattutto, dal credere che i bambini debbano o possano accettare il cambiamento della loro dieta solo perché viene deciso da qualcun altro, cioè da noi pediatri e di conseguenza dalla famiglia.

Da tutto ciò deriva una serie di conseguenze: la decisione arbitraria di un momento d’inizio dello “svezzamento”, l’uso di alimenti diversi da quelli preparati in casa (pappe pronte, omogeneizzati, bustine, eccetera), l’estrema monotonia dei pasti, che non permette al bambino di sviluppare una conoscenza dei cibi nella loro varietà, la definizione a priori delle quantità, che ovviamente si scontra con l’individualità di ciascun bambino, e, infine, il fatto che si continui a offrire il cibo, quando invece bisognerebbe basarsi sulla richiesta, come ha messo in evidenza la ricerca scientifica. Quindi, insomma, sono moltissime le procedure che andrebbero corrette. 

Valorizzare le competenze del bambino

CB: È molto bello e interessante questo riferimento che fai alle competenze del bambino, e come quindi in questo rivolgimento delle pratiche sia necessario prendere un po’ più in considerazione le abilità del piccolo: è lui il protagonista di tutta la vicenda. Adesso, però, alcuni dicono che l’autosvezzamento non è altro che una moda. Ci sono delle evidenze scientifiche che ci permettono di dire che invece si tratta di un approccio del tutto consigliabile, oltre che sicuro?

LP: Da un certo punto di vista possiamo dire, effettivamente, che è una moda, perché dell’autosvezzamento ultimamente si sono appropriati tantissimi soggetti più o meno preparati, e non tutti conoscono bene le sue basi scientifiche. Quindi è stato stravolto e, nonostante si sia diffuso molto, una volta messo in pratica non sempre si è dimostrato efficace sul lungo periodo. 

In realtà le basi scientifiche sono tante e le evidenze principali sono quelle che hanno dimostrato, già a partire da cinquant’anni fa, le competenze di cui parlavamo prima. Sono competenze che il bambino sviluppa dalla nascita, man mano che cresce, fino ad arrivare al momento in cui consentono il passaggio dall’alimentazione a base di latte o formula a un’alimentazione mista. 

Ci sono poi studi che hanno dimostrato come utilizzare questa modalità non comporti alcun problema nutrizionale; e non solo: presenta infatti grossi vantaggi per quel che riguarda il rapporto del bambino col cibo e anche il rapporto dei genitori col bambino.  

Quindi si può seguire questa modalità con grande tranquillità, serenità, e con grande fiducia nelle competenze del piccolo; fiducia e sicurezza di sé che si trasferiscono anche in altri ambiti educativi. Si verifica un “effetto alone” che valorizza ancora di più questa modalità di introduzione degli alimenti solidi.

Questi lavori scientifici, spesso, non vengono presi tanto in considerazione da chi si oppone all’alimentazione complementare a richiesta, e in generale è sorprendente come chi critica i risultati di tali studi non sia in grado di fornire nessuna prova a sostegno della bontà dello “svezzamento tradizionale” (quello fatto di tabelle, orari precisi, tempi specifici di inserimento degli alimenti). È una modalità, quest’ultima, che non ha nessuna sperimentazione alla base, si è andato avanti per pareri, per opinioni, pensando di fare bene, ma non a partire da studi scientifici controllati. 

Abitudini difficili da cambiare

CB: Ma allora, viste le prove scientifiche che ci confermano la bontà dell’alimentazione complementare a richiesta, com’è possibile che ancora oggi ci siano molti pediatri che consigliano il vecchio svezzamento, fatto di rigide tabelle e prescrizioni?

LP: La spiegazione più benevola è l’abitudine. Dopo anni in cui si è seguita quotidianamente una certa procedura nella quale si credeva fermamente, che abbiamo studiato all’università e che abbiamo trovato sui libri, che nessun clinico universitario ha mai contestato e che quindi diventa qualcosa di intrinsecamente autorevole, cambiare tutto solo perché queste “novità” sono state diffuse, in Italia, da persone che non avevano nessun titolo accademico, vale a dire noi pediatri dell’Associazione Culturale Pediatri, è sicuramente difficile e comprensibile. Questa convinzione era talmente radicata che i pessimi risultati che si ottenevano in termini di comportamento alimentare dei bambini, invece di indurci a riflettere sulla possibilità che stessimo sbagliando qualcosa, ci portavano semplicemente a concludere che lo “svezzamento” era difficoltoso di suo, come era avvenuto fino agli anni Settanta per l’allattamento.

Tuttavia, più o meno dal 1980, si sono notevolmente ampliate le possibilità di aggiornamento professionale e, almeno per quanto mi riguarda, si è cominciato ad andare oltre le solite cerimonie congressuali della “nomenclatura”. Sono nate nuove riviste indipendenti, sullo stile di quelle straniere, l’accesso alle fonti è diventato molto semplice, con Internet semplicissimo; poi c’è stato l’aggiornamento obbligatorio delle aziende sanitarie pubbliche. Questo per dire che non c’erano più alibi disponibili: se mancava il sapere, era perché si rinunciava a cercarlo. Quindi si era ignoranti per scelta, e questo, se è comprensibile per un normale cittadino, non è mai ammissibile per un qualunque professionista. È un po’ come se un avvocato discutesse una causa senza conoscere le più recenti disposizioni di legge, o un astronomo scrutasse il cielo con il telescopio di Galileo. Le fonti ci sono, sono accessibili, è nostro dovere di medici conoscerle

Eravamo arrivati al punto in cui le novità scientifiche che noi pediatri eravamo pronti a adottare erano solo quelle che ci venivano “imposte” dalla struttura ospedaliera, che magari assegnava al bambino appena dimesso una terapia, o dalle famiglie, che potevano essere venute a conoscenza prima di noi di nuove modalità come l’alimentazione complementare a richiesta e cercavano informazioni in proposito.

CB: Proprio su questo ti chiedo un’altra cosa: c’è qualcosa che noi genitori possiamo fare di fronte a questa resistenza al cambiamento?

LP: Io di solito dico ai genitori: fate pressione voi, chiedete sempre il perché delle scelte del pediatra, discutetene. Ovviamente, raccogliete tutte le informazioni che vi servono per confrontarvi con il vostro medico e, attraverso una civilissima discussione, verificate quanto ne sa, e chiedetegli cortesemente se si informa e se vi dà poi una risposta.  

Condizionamenti e conflitti d’interesse

CB: Nel tuo libro Sotto il camice niente hai raccontato alcuni retroscena del mondo medico in cui ti sei imbattuto nella tua carriera. È possibile che l’operato di alcuni medici sia condizionato da interessi che vengono anteposti alla salute delle persone? Nello specifico dell’autosvezzamento, esiste un qualche condizionamento legato alle aziende produttrici di baby food oppure le dinamiche sono di altro tipo?

LP: Che esista un condizionamento dell’operato dei medici da parte delle industrie farmaceutiche è un dato di fatto, tanto che ad esempio le riviste specialistiche per pubblicare un articolo scientifico esigono che gli autori dichiarino l’esistenza di eventuali conflitti di interesse. 

Se si parla di medici e pediatri di famiglia, a parte i casi eclatanti di pubblico dominio perseguiti dalla magistratura, la propensione verso una certa procedura o prescrizione può avvenire del tutto inconsapevolmente, semplicemente come istintiva riconoscenza nei confronti di chi ci ha accordato dei benefici. Spesso il peccato, quindi, è veniale, ma se non si ha un’adeguata padronanza della materia da affrontare, le conseguenze possono essere anche gravi.

Nel nostro caso ci si potrebbe chiedere che male ci sia a prescrivere il baby food per l’alimentazione complementare, magari fissando anche tempi, orari, qualità e quantità. Tutti noi lo abbiamo fatto tranquillamente, ritenendo anche che farsi sponsorizzare dalle ditte di baby food l’iscrizione a un congresso, ad esempio, fosse del tutto normale, anzi quasi doveroso. Se avessimo saputo che le conseguenze in termini di qualità della nutrizione, di problemi del comportamento alimentare e di problemi delle relazioni intrafamiliari potevano essere disastrose ed evitabili, di sicuro avremmo agito diversamente. Il fatto è che, come abbiamo detto, le informazioni utili al cambiamento erano già disponibili, ma non abbastanza diffuse e sufficientemente messe in risalto, come invece tante altre più remunerative per determinati portatori di interessi.

Una conferma che il problema esiste è la decisione, nel 2019, dell’Associazione dei pediatri britannici (RCPCH) di non accettare più donazioni da parte delle ditte produttrici di formula, cosa che invece continua ad avvenire in Italia e in molti Paesi europei.

La rivoluzione dell’autosvezzamento

CB: Prima di chiudere vorrei farti una domanda sul tuo ultimo libro, il cui titolo rivela già il tuo approccio all’introduzione dei cibi soldi. Il libro infatti si chiama Sereni a tavola. Parto da questo spunto per chiederti: qual è la grande novità dell’autosvezzamento rispetto all’approccio tradizionale, e perché i genitori possono stare “sereni a tavola”?

LP: La grande novità è aver chiarito, grazie anche a numerose evidenze scientifiche arrivate nel tempo, che l’avvio dell’alimentazione complementare è una tappa del normale sviluppo dei bambini, così come succhiare il seno, camminare, parlare e tante altre competenze che si sviluppano senza che nessuno si attivi perché questo avvenga; come tutte le fasi di crescita, anche questa ha tempi di comparsa e di perfezionamento specifici e diversi per ciascun bambino. In pratica, il bambino è obbligato, a un certo punto, ad aggiungere cibi solidi al latte o alla formula, e così come, se non si interferisce in nessun modo, è competente da subito nell’allattamento, lo sarà anche nell’assunzione dei cibi solidi.

Oggi le mamme allattano serenamente fidandosi della capacità dei neonati; possono stare altrettanto serene affidandosi alle naturali competenze dei lattanti per quel che riguarda la gestione dell’alimentazione complementare.  

Se siamo buoni osservatori, vediamo che dopo la nascita il neonato, pur sazio di nutrimento placentare, entro un lasso di tempo variabile cerca comunque spontaneamente il seno e si attacca senza difficoltà, dando chiara dimostrazione di sapere cosa deve fare per stare bene. Allo stesso modo il lattante, pur sazio di latte, a una certa età si attiva per riuscire a mettere in bocca quell’“aggeggio” che usano i genitori, carico di non sa ancora cosa, per soddisfare la sua istintiva curiosità. In ambedue i casi basta rispondere alle “richieste” dei bambini e aiutarli a raggiungere il risultato cui mirano

Come quando si offre il seno senza che sia richiesto, anche nel caso dell’offerta di cibo non richiesto diventa altamente probabile che questo venga rifiutato o usato in maniera scorretta, con il bambino che lo  lancia da una parte e dell’altra e lo infila dappertutto meno che in bocca. Se si esce dal paradigma dell’offerta e si segue quello della richiesta, simili eventualità non si verificheranno, e si scoprirà che il bambino sano inappetente, in realtà, non esiste, come dice il sottotitolo del libro. 

L’unica vera “complicazione” dell’alimentazione complementare a richiesta è che è talmente semplice, proprio perché non richiede delle competenze specifiche, da indurre spesso i genitori, influenzati da decenni di cattiva informazione, a dubitare della sua bontà o a intraprendere rischiose vie di mezzo. Per questo rifiuto le definizioni di “metodo” o “pratica” da imparare in quattro e quattr’otto; se così fosse basterebbe leggiucchiare qualcosa di adeguato e seguire le indicazioni passo passo. Per superare l’idea prevalente intorno all’alimentazione infantile, considerata perlopiù intrinsecamente problematica, e visto che l’alimentazione complementare a richiesta è “nata” dal mio lavoro in consultorio nei corsi di accompagnamento alla nascita, io la presento sempre come un percorso complesso di formazione e informazione, da iniziare già in gravidanza, e che porta alla serenità, a stare sereni a tavola.

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Lucio Piermarini

Ternano, dopo aver lavorato come pediatra ospedaliero, si occupa di formazione nell’ambito dei corsi di preparazione alla nascita presso il consultorio “Città Giardino” di Terni. È uno degli autori storici di Uppa e ha pubblicato numerosi articoli sullo svezzamento su riviste pediatriche e non solo. Nel 2019 è uscita per Uppa edizioni una nuova versione del suo libro “Io mi svezzo da solo!”

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Chiara Borgia

pedagogista, svolge attività privata di consulenza pedagogica nel sostegno alla genitorialità e al percorso di crescita di bambini e adolescenti. Coordina progetti di educazione e accompagnamento alla morte e all’esperienza della perdita, si occupa di famiglie adottive e lavora come formatrice per gli operatori di nidi e scuole dell’infanzia nella provincia di Messina. È stata vicedirettrice di Uppa magazine dal 2018 e dal 2022 ne è diventata direttrice.

Articolo pubblicato il 12/10/2022 e aggiornato il 12/10/2022
Immagine in apertura M-image / iStock

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