Percezione del rischio e prevenzione: cosa cambierà?

Con il progressivo allentamento delle misure di contenimento diventerà fondamentale aiutare i nostri bambini a normalizzare una serie di comportamenti preventivi, promuovendo il senso di responsabilità e non la paura di ammalarsi

Immagine per l'autore: Silvana Quadrino
Silvana Quadrino , psicologa e psicoterapeuta
Primo piano di un bambino che versa del sapone sulle mani di un genitore

«Non prendere freddo se no ti ammali», «Non mangiare troppi dolci che ti fanno male».
Nel dialogo quotidiano tra genitori e bambini gli accenni alla salute, al rischio di ammalarsi, a cosa bisogna fare per rimanere sani sono più o meno frequenti, a seconda di quello che i genitori pensano della malattia, della salute, dei rischi.
Ci sono differenze abbastanza evidenti tra genitori particolarmente ansiosi, preoccupati di tutto quello che potrebbe danneggiare il loro bambino, e genitori più “spregiudicati”, legati all’antico detto “quel che non ammazza ingrassa”. Negli ultimi anni, tuttavia, sembrano aumentati i genitori attenti, con una certa percentuale di “preoccupati” e una percentuale significativa di “troppo preoccupati”. Ma preoccupati di cosa? 

La percezione del rischio

C’è una differenza fra quello che un adulto considera rischioso per sé e quello che un genitore considera rischioso per il proprio bambino. La “protezione del cucciolo” può rendere molto preoccupati per cose a cui non badiamo troppo quando si tratta di noi stessi. 

Ma in generale è proprio l’idea di “rischio” a essere diversa da persona a persona, perché è legata a due elementi molto soggettivi: le cose che vogliamo assolutamente evitare e ciò che siamo disposti a fare (o a non fare) per evitare che quelle cose succedano.

Se volessimo evitare, a noi e ai nostri figli, qualsiasi eventuale malattia, dovremmo adottare comportamenti talmente estremi da rendere impossibile la vita stessa, senza comunque eliminare del tutto la probabilità di ammalarsi.

Per questo, in genere, ogni persona finisce inconsapevolmente per concentrarsi su uno dei possibili rischi – l’inquinamento, gli alimenti e la loro provenienza, i farmaci, eccetera – per cercare di tenere sotto controllo “almeno” tutto quello che riguarda quell’aspetto specifico. Questa “illusione di controllo” rende più tollerabile l’inevitabile percentuale di incertezza sul futuro, e quindi sulla salute nostra e dei nostri figli, che fa parte della vita.

Con l’epidemia di COVID-19 tutto cambia; per cominciare, perché si tratta di un rischio che affrontiamo per la prima volta. Poi, perché si tratta di un rischio a cui siamo esposti indipendentemente dalla nostra volontà. E infine perché le conseguenze della malattia sono ancora imprevedibili. Tutto questo aumenta enormemente la sensazione di incertezza, e il bisogno di capire cosa bisogna fare per difendersi.

Prevenzione, cioè?

Perché i rischi si possono prevenire, no? È quello che ci hanno sempre detto i medici, è quello che diciamo ai nostri bambini: tutti i nostri «non fare questo», «non fare quello», «attento a…» sono interventi di prevenzione.
Questi avvertimenti contengono sempre un accenno al rischio, un “se no”: se no cadi, se no ti viene il mal di pancia. Rischi quotidiani, che non fanno poi così tanta paura.

L’epidemia di COVID-19 rende il “se no” estremamente minaccioso: «Lavati bene le mani, se no…?».

Sono bastati pochissimi giorni per creare un’associazione mentale fra la parola Coronavirus e la morte, e l’insistenza ossessiva dei media sui numeri di malati e di morti, continuamente ripetuti e aggiornati, ha rafforzato questo collegamento mentale anche per i bambini. Ma è questo il messaggio che volevamo dare ai nostri figli? Lavati bene le mani se no muori?

La possibilità che sia passato un messaggio simile, che nei bambini sia nata la paura di rischiare la morte se non si lavano bene le mani, se si esce fuori di casa, se si tocca una maniglia, se qualcuno si avvicina troppo, può rendere i piccoli eccessivamente spaventati e rallentare la ripresa della loro vita sociale.

Non è questo che deve succedere: ora che si passerà a una “fase due” e poi a progressive fasi di allentamento delle misure di contenimento, è importante che i genitori riescano a creare nei loro bambini un atteggiamento responsabile, e non terrorizzato. E questo, naturalmente, richiede che i genitori per primi sviluppino questo tipo di atteggiamento.

Fare, non fare e perché

Quando i messaggi di prevenzione sono stati affidati unicamente alla minaccia («non fumare se no ti viene il cancro», «non bere quando devi guidare se no ti schianti») la loro efficacia è risultata molto bassa. Quello che si è scoperto è che per cambiare i propri comportamenti le persone devono sentirsi motivate, e per essere motivati bisogna dare un senso ai comportamenti che ci vengono chiesti. È importante insomma capire “perché” fare una certa cosa è utile, e vederne i vantaggi. Per esempio, se non fumo i miei polmoni funzionano meglio, il sangue circola meglio, respiro meglio e mi affatico di meno: sono cose che posso capire, ci sono dei vantaggi, posso farlo.

Cosa ci è stato chiesto di fare, nel corso di questa pandemia? Uno dei problemi è stata proprio l’eccessiva diffusione di indicazioni di comportamento diverse, a volte contraddittorie, e spesso non del tutto logiche né comprensibili. Questo può avere confuso e spaventato sia i genitori sia i bambini, e rischia di dare luogo a due atteggiamenti opposti: una progressiva perdita di attenzione verso i comportamenti necessari, o al contrario un eccesso di precauzioni che può portare a vedere un pericolo di contagio ovunque.

Il momento della responsabilizzazione

Nel momento in cui i bambini cominceranno a poter uscire, e poi a frequentare la scuola, è fondamentale che sappiano da cosa si stanno difendendo: non da un mostro impalpabile e onnipresente ma da un organismo piccolissimo che può passare da una persona all’altra, e può essere fermato con alcune semplici misure, che abbiamo imparato in queste settimane e che dovremo mantenere con attenzione.

Tutto quello che i genitori hanno ripetuto ai bambini in questo periodo diventa un prezioso strumento di responsabilizzazione: dire loro che da ora in poi tocca a ciascuno di noi difendere sé stessi e gli altri, dare un senso concreto al lavaggio delle mani e alla distanza di sicurezza, potrà avere effetti positivi anche per il futuro, per sviluppare una coscienza della salute individuale e collettiva che è ancora carente.

Stiamo preparando una generazione di patofobi?

Il timore di molti è che questa esperienza possa rendere i bambini eccessivamente preoccupati per la salute propria e dei genitori, troppo attenti ai sintomi e alle malattie. Questo è sicuramente possibile, ma dovremmo vederlo come una risposta a una situazione eccezionale, che può essere ridimensionata e “normalizzata” con l’aiuto dei genitori.

È diventato drammaticamente evidente che niente, neppure le conoscenze scientifiche più avanzate, possono eliminare del tutto dalla vita dell’essere umano il rischio di malattia. Ma proprio un’esperienza come quella che stiamo attraversando può permettere ai genitori di sviluppare, insieme ai figli, un atteggiamento più “sano” nei confronti della salute e delle malattie: ci ricorderemo che non sempre è possibile evitare di ammalarsi, ma che è importante mantenere il corpo in buona salute perché così si difenderà meglio. Che alcune precauzioni, diventate indispensabili in questa situazione – in particolare il lavaggio delle mani –, saranno utili sempre, perché fanno parte della cura di sé e degli altri, da conservare e sviluppare anche in tempi normali.

Insomma, dovremo puntare progressivamente sulla promozione della salute e su tutto quello che la favorisce – comportamenti, stile di vita, ma anche cura dell’ambiente che ci circonda – invece che sul timore delle malattie, viste come una minaccia continua e angosciante. Potrebbe essere un cambiamento importante nell’idea di salute degli adulti di domani.

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Silvana Quadrino

psicologa, psicoterapeuta della famiglia e docente di counselling alla Scuola di specializzazione in Pediatria dell’Università di Torino, ha elaborato il metodo del counselling sistemico narrativo, che utilizza nella formazione dei professionisti e negli interventi per lo sviluppo delle competenze genitoriali. Ha fondato la scuola di comunicazione e counselling CHANGE di Torino.

Articolo pubblicato il 24/04/2020 e aggiornato il 22/09/2022
Immagine in apertura Borovikk / iStock

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