Nel mio lavoro ho incontrato due tipi di coppie di genitori: quelle che dicono con sicurezza «Saremo degli ottimi genitori, saremo una famiglia felice!» e quelle che si chiedono smarrite: «Saremo capaci di essere una buona famiglia per i nostri figli?».
Negli ultimi anni le situazioni del secondo tipo sembrano in aumento. La cosa non è negativa: un po’ di sana preoccupazione mantiene vigile l’attenzione su ciò che accade nello sviluppo della vita familiare. Perché è ciò che succede, momento dopo momento, a determinare il modellarsi di ogni famiglia, la costruzione di un modo di vivere e affrontare i cambiamenti che sarà unico e irripetibile, e insegnerà ai figli a muoversi nella complessità del mondo.
Non si può parlare di famiglia in astratto: la famiglia è una struttura sociale collocata in una realtà sociale. Entrambe hanno una caratteristica ineliminabile: si modificano. Le strutture familiari si sono diversificate più negli ultimi cinquant’anni che in tutti i secoli precedenti (a tal proposito, vi consigliamo anche la lettura del nostro articolo sui bambini con genitori omosessuali). Ma anche la realtà sociale è cambiata profondamente, e le due cose sono collegate: maggiore possibilità, e anche necessità, di spostamenti e trasferimenti; maggiore instabilità e mobilità lavorativa; maggiore possibilità di incontro fra culture diverse; maggiore parità tra i generi. Questo cambia qualcosa nel modo di essere famiglia, di essere genitori?
Le differenze tra le famiglie “di una volta” e le famiglie di oggi preoccupano chi vede nelle strutture familiari tradizionali l’unica garanzia di serenità e sviluppo equilibrato per i bambini. Spesso sono i nonni a rivolgermi domande di questo tipo: «Come cresceranno i nostri nipoti con due genitori separati che vivono in due città diverse?»; «Come reagiranno alla nuova relazione della mamma o del papà, alla presenza di un’altra persona in casa… alla convivenza con i suoi figli?». Dietro queste domande c’è quasi sempre la convinzione che cose simili non debbano succedere, che non siano giuste, che non siano normali: bisogna riuscire a evitarle, e ciò basterà a garantire serenità ed equilibrio ai figli. Sappiamo che non è così. Ma allora, cosa può garantire ai bambini una crescita sana ed equilibrata in una realtà che muta profondamente?
La famiglia ha una funzione essenziale nel processo di crescita: permette lo sviluppo del senso di appartenenza, elemento centrale nella costruzione dell’identità. Essere individuato come “il figlio di”, “il nipotino di” costituisce per ogni bambino la prima esperienza di identità basata sull’appartenenza. Le feste, i riti, la condivisione delle storie di famiglia sono tutti elementi fondamentali per consolidare il senso di “essere parte” di qualcosa in cui riconoscersi. Ma in famiglia si apprende anche la differenziazione: un’appartenenza troppo stretta e vincolante limiterebbe la spinta all’espansione, allo sviluppo della propria individualità e specificità. La differenziazione ha a che fare con la capacità di ricercare la propria autonomia e la propria identità, senza dover rinunciare alla sicurezza emotiva garantita dal senso di appartenenza.
Il prevalere del bisogno di appartenenza corrisponde al bisogno di invariabilità, al desiderio che niente cambi. Nei bambini piccoli questa esigenza di stabilità/ invariabilità è fortissima: tutti i genitori conoscono il bisogno di rituali, di formule verbali ripetitive; anche cambiare una parola nel raccontare una fiaba suscita a volte reazioni indignate: «Non dice così!».
La realtà però cambia; la famiglia cambia. I cicli della vita mettono i bambini di fronte a regole e richieste che mutano con la crescita, a eventi come le malattie e la morte. Le storie personali dei genitori producono cambiamenti nella struttura familiare: nelle condizioni economiche, nella situazione abitativa, allontanamenti, separazioni. È compito della famiglia affiancare i bambini nello sviluppo di una capacità che sarà indispensabile nella loro vita futura: quella di far fronte ai cambiamenti, di cercare nuovi equilibri in cui sviluppare la propria individualità e la propria autonomia.
«Facciamo bene o facciamo male a…?». Di fronte a possibili cambiamenti, i genitori pongono questa domanda, nella speranza che qualcuno dica loro: «Fate così, andrà sicuramente bene per i vostri figli». Roberto, 35 anni, racconta in un incontro di gruppo fra genitori la sua esperienza di figlio: «Una cosa non riesco a perdonare ai miei: di non essersi separati. Di aver preteso che io e mia sorella credessimo all’esistenza di una coppia che non c’era, che facessimo finta di non vedere e di non sentire. Non farei mai una cosa del genere ai miei figli».
Annalisa, 27 anni, racconta in psicoterapia: «La cosa più brutta della mia vita è stata la separazione dei miei; sono passati anni, ma soffro ancora, non credo che la supererò mai. Sono stati egoisti, avrebbero dovuto pensare a me, evitare di farmi stare così male». Se usassimo la storia di Roberto come esempio, dovremmo dire: se non si vuole far soffrire i figli, meglio separarsi. Se usassimo quella di Annalisa, dovremmo dire: per il bene dei figli è meglio non separarsi mai, a nessun costo. Sono due esempi per arrivare a una conclusione: non c’è nulla, nessun avvenimento, nessun comportamento, nessuna caratteristica dei genitori o della famiglia che produca con sicurezza benessere o sofferenza, felicità o infelicità nei figli. La grande sfida che i genitori, e i genitori di oggi in particolare, devono affrontare è quella di offrire ai figli stabilità negli inevitabili cambiamenti che la vita comporta.
psicologa, psicoterapeuta della famiglia e docente di counselling alla Scuola di specializzazione in Pediatria dell’Università di Torino, ha elaborato il metodo del counselling sistemico narrativo, che utilizza nella formazione dei professionisti e negli interventi per lo sviluppo delle competenze genitoriali. Ha fondato la scuola di comunicazione e counselling CHANGE di Torino.