Cibo, identità, relazione

È soprattutto il comportamento dei genitori a permettere nei bambini lo sviluppo di un atteggiamento positivo nei confronti del cibo

Immagine per l'autore: Silvana Quadrino
Silvana Quadrino , psicologa e psicoterapeuta
Bambina seduta a tavola a mangiare con la mamma

Avete mai provato a chiedere a un gruppo di bambini: «Quali sono le cose che non bisognerebbe mangiare perché fanno male?». Io lo faccio spesso nelle scuole, per avviare la discussione su come si scelgono i cibi, e poi sui gusti personali e sulle diverse tradizioni alimentari. I bambini rispondono quasi sempre indicando cibi che mangiano molto volentieri ma che, si sa, fanno male: patatine, merendine, dolci e così via. Su questo, le risposte non sono cambiate molto negli anni. Ma se si chiede: «Perché fanno male?», ci si accorge che negli ultimi anni sono più frequenti risposte del tipo: «Perché fanno ingrassare»; «contengono zucchero»; «non sono “naturali”». Buon segno? Forse sì: indirizzare i propri figli verso scelte alimentari responsabili e salutari è sicuramente un compito importante; purché l’atteggiamento delle famiglie sia equilibrato e realmente educativo.

«Questo non lo puoi mangiare!»

Il cibo è un elemento fondamentale nella relazione del bambino con il suo ambiente di vita: le modalità di passaggio dall’allattamento ai cibi “di casa” giocano un ruolo notevole non soltanto nella scoperta di gusti, odori, consistenze, ma anche nello sviluppo dell’atteggiamento complessivo nei confronti dell’alimentarsi. È proprio nella fase dello svezzamento che i genitori possono creare intorno al momento del pasto situazioni positive e gradevoli oppure di preoccupazione e tensione. Il timore che il bambino mangi poco (ne parliamo anche nel nostro articolo Uno mangia troppo e l’altro poco… che fare?), nella fase in cui la sperimentazione di nuovi sapori non ha sempre risultati positivi, può far ritornare troppo facilmente all’alimentazione al seno o al biberon, ritardando l’inizio della “scoperta dei cibi dei grandi”; o all’offerta continua di cibo, «purché mangi qualcosa», che ostacola lo sviluppo della capacità di riconoscere le proprie sensazioni di fame e di sete, la capacità di segnalare i propri bisogni e di acquisire un ritmo di alimentazione basato sui segnali del corpo e non su stimoli esterni.
Ma cosa “può” mangiare un bambino nel primo anno di vita e nel corso della prima infanzia? In realtà non ci sono cibi vietati o pericolosi per un bambino che non abbia reali problemi di salute. Anzi, mettere il prima possibile a disposizione una varietà di alimenti, purché preparati correttamente, è forse l’unico modo per evitare che il bambino limiti le sue scelte a pochi cibi o sviluppi un rifiuto verso alimenti importanti come le verdure. Ma cosa accade se le restrizioni sono decise dagli adulti?

No a restrizioni immotivate

«Questa io non la posso mangiare.» Giada, 5 anni, restituisce con un sorriso mesto alla mamma di Luca, l’amichetto che l’ha invitata al compleanno, il piattino con la torta che le è stato passato. La mamma di Luca ricorda all’improvviso le raccomandazioni della madre di Giada: «Mia figlia non deve mangiare nulla che contenga zucchero, ma non si preoccupi, è abituata e non c’è bisogno di controllarla».
Negli ultimi anni l’indicazione di evitare lo zucchero nell’alimentazione dei bambini piccoli si è trasformata per molti genitori in una specie di missione che dovrebbe durare tutta la vita. Dal punto di vista dello sviluppo di un rapporto equilibrato con il cibo, tutte le restrizioni non giustificate da specifiche condizioni di salute comportano dei rischi: un conto è insegnare al proprio bambino ad apprezzare cibi e bevande non dolcificati, a gustare tutti i sapori naturali senza la copertura omologante del “dolce”; ma trasformare una caramella o una fetta di torta in una minaccia rischia di promuovere nel bambino una preoccupazione eccessiva e immotivata rispetto a ciò che si può mangiare, ai rischi che comporta, alla possibilità di aver mangiato qualcosa che sarebbe stato meglio evitare del tutto.

La differenza fra «non posso» e «non mi piace»

Per un bambino sano, la scelta del cibo deve essere legata al gusto e al piacere, non a imposizioni più o meno ideologiche: se la piccola Giada avrà imparato in famiglia ad apprezzare il sapore di un frutto, e a preferirlo a quello di un’elaborata torta di compleanno, non saranno necessarie raccomandazioni o divieti: più probabile che, dopo averla assaggiata, lasci nel piatto gran parte della torta, e che alla mamma di Luca dica: «Ne lascio un po’, i dolci non mi piacciono tanto». La differenza fra «non posso» e «non mi piace» è fondamentale per il consolidarsi di un buon rapporto con il cibo.
Questo vale anche nel caso di altre scelte alimentari della famiglia. L’alimentazione vegetariana, vegana e macrobiotica può essere proposta ai bambini sotto il controllo del pediatra, ma sempre senza pretendere che il bambino si trasformi in testimonial delle scelte altrui. Lasciargli la libertà di assaggiare quello che mangiano gli altri bambini senza minacce o divieti lo aiuterà a costruirsi una propria “filosofia” alimentare autonoma e serena.

Limitazioni legate a problemi di salute

Più delicato il compito dei genitori quando devono affiancare il bambino nell’assumere un comportamento alimentare adeguato a un problema di salute (celiachia, diabete, e così via) o a un problema di sovrappeso/obesità. In questi casi è fondamentale una stretta collaborazione tra la famiglia e il pediatra per costruire un piano di “educazione terapeutica” personalizzato. Ma è soprattutto l’atteggiamento dei genitori che permetterà di evitare che le modalità di alimentazione richieste appaiano al bambino come imposizioni volute dagli adulti, alle quali più o meno consapevolmente cercherà di trasgredire.
Nel caso di malattie croniche, è importante che il bambino possa parlare con i genitori e con il pediatra delle sue difficoltà nel seguire le indicazioni, delle situazioni in cui le difficoltà sono maggiori, e anche delle trasgressioni: l’adesione a comportamenti alimentari che richiedono rinunce e limitazioni passa dalla motivazione, e la motivazione non si sviluppa se il bambino vede negli adulti dei “nemici/persecutori” da ingannare. Anche quando le modificazioni del comportamento alimentare sono temporanee, è sempre bene ridurre la focalizzazione sulle restrizioni e sui divieti, e puntare sulla condivisione degli obiettivi e sulla valorizzazione dei successi anche parziali. Lo scopo, anche in questo caso, è lo sviluppo di un atteggiamento equilibrato nei confronti dell’alimentazione, evitando di trasformare i cibi vietati in irresistibili oggetti del desiderio. In tutti i casi, meglio cercare insieme al bambino il modo più piacevole, gustoso e divertente per cucinare i cibi che gli si addicono e coinvolgerlo nella loro preparazione. Il cibo deve mantenere la sua valenza di piacere e di condivisione relazionale e affettiva, in famiglia e nel gruppo di coetanei.

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Silvana Quadrino

psicologa, psicoterapeuta della famiglia e docente di counselling alla Scuola di specializzazione in Pediatria dell’Università di Torino, ha elaborato il metodo del counselling sistemico narrativo, che utilizza nella formazione dei professionisti e negli interventi per lo sviluppo delle competenze genitoriali. Ha fondato la scuola di comunicazione e counselling CHANGE di Torino.

Articolo pubblicato il 30/10/2018 e aggiornato il 09/01/2023
Immagine in apertura shapecharge / iStock

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